Bologna, 15 gennaio 2025 – Giampaolo Amato uccise moglie e suocera per motivi dalla “peculiare complessità”. Non solo per il desiderio di vivere liberamente la relazione con l’amante più giovane e di ereditare il denaro delle sue vittime, quindi, ma per un insieme di “pressioni” ben più complesso.
L’oculista ed ex medico della Virtus basket di 65 anni il 16 ottobre scorso è stato condannato all’ergastolo per avere ucciso la moglie Isabella Linsalata e la suocera Giulia Tateo, a 22 giorni di distanza l’una dall’altra nell’ottobre 2021, avvelenandole con un mix di farmaci ospedalieri, Midazolam (benzodiazepina) e Sevoflurano (anestetico). Le due sono state trovate a letto senza vita, nei rispettivi appartamenti comunicanti, in circostanze identiche: apparentemente addormentate, sul fianco, con le coperte rimboccate e il resto delle lenzuola intonse, la finestra chiusa con la tapparella alzata a metà. Unico familiare in casa, nel suo appartamento-studio al piano di sotto, al momento dei decessi: Giampaolo Amato.
Non certo un caso, per i giudici della Corte d’assise che motivano ora la condanna, scandagliando a una a una le contraddizioni, le incongruenze e le tortuose ricostruzioni fatte dall’imputato. Per la Corte non c’è dubbio: Amato è “un freddo e spietato assassino”. Cui la famiglia “da Mulino bianco” stava stretta. Eppure non riusciva a staccarsene. Perciò ha ucciso.
Le prove a suo carico, per la Corte, sono “inconfutabili” pur in assenza di una “pistola fumante”. E in linea con la sua “personalità”, non solo per come emersa durante il processo e dalle testimonianze di chi lo conosce, ma anche dalla consulenza commissionata proprio dalla difesa allo psichiatra Renato Ariatti, che ne sottolineò un “difetto di base nelle strutture psichiche circa consapevolezza e controllo dell’autostima”. Un “lato oscuro”, parafrasano i giudici, che “conduce Amato a convincersi di realtà da lui stesso costruite e pretese per vere, specie sulla sua convinzione di sapere ’essere perfetto’ in ogni ruolo”. Da questo scontro tra realtà e desiderio, ecco la molla omicida.
“Le fortissime spinte a iniziare una nuova vita con la giovane amante non lo lasciavano psicologicamente libero di rompere col passato, specie coi figli, cui è visceralmente affezionato”, scrive il giudice relatore Mirko Stifano. “Per oltre tre anni dà dunque vita a una quotidianità di promesse mai mantenute all’amante, di rassicurazioni e menzogne alla moglie, di irrisolti tentennamenti fatti di reiterati e brevi uscite dalla casa familiare sempre risoltesi con il rientro e l’abbandono dei tentativi di convivenza con l’amante”.
Con cui per giunta non conviverà mai, neppure dopo il decesso della moglie. È “proprio in questa invischiata incapacità di lasciare il nucleo familiare che va ricercato il movente. Isabella, solo con la sua testimonianza di fedeltà e di 30 anni insieme, costituiva un ricatto morale insormontabile. Ma Amato era alle strette: da un lato la rabbia dei figli, lo sconforto della moglie divenuto distacco e prospettiva di separazione; dall’altro, l’amante, che temeva di perdere se non l’avesse convinta di volere davvero trascorrere una vita insieme”.
Insomma, il medico deve decidere, e presto, a cosa rinunciare. Sceglie così di rimuovere “gli ostacoli che gli avrebbero impedito di conservare il meglio della sua vita: il ruolo genitoriale e la storia d’amore”. Gli ostacoli sono moglie e suocera. La prima, per l’ascendete sui figli e in quanto “rimprovero continuo” della sua infedeltà; la seconda perché proprietaria della casa di Amato, e che non gli avrebbe certo permesso di portarci un’altra. Al contrario, “la vedovanza avrebbe ammorbidito i figli, consentendogli, col tempo, di far loro accettare l’amante”, rimanendo nella casa di famiglia e “nel contesto sociale, relazionale e lavorativo senza contraccolpi”. Una scelta calcolata.