di Donatella Barbetta
"Sì, a Natale lavorerò, come altri colleghi e saremo insieme ai nostri pazienti per tutelare la salute di tutti. Trascorrere le feste in ospedale è sempre difficile, si acuisce la solitudine e il senso di isolamento diventa ancora più forte: tra i nostri compiti c’è anche quello di far sentire i ricoverati meno soli. Come? Ci occuperemo anche della comunicazione tra degenti e familiari, faremo le telefonate e le videochiamate e porteremo un sorriso". È il ‘dono’ che Rossella Romagnoli, 46 anni, medico nel reparto Covid del decimo piano del Maggiore, ha già in mente.
Tuttavia, è la seconda volta che i sanitari affrontano in corsia le Festività natalizie e se all’inizio della pandemia erano definiti ‘eroi’, adesso il rapporto con i malati viene presentato con sfumature diverse.
"Il carico emotivo cresce – ammette Maria Luigia Cipollini, 39 anni, medico, impegnata nel reparto Covid del sesto piano – e quando vengono ricoverate persone giovani si fa sempre fatica ad affrontare questa malattia. E poi ormai vediamo diverse tipologie di pazienti, chi riconosce il valore di ognuno di noi e del nostro lavoro e chi, invece, come i non vaccinati, è convinto delle proprie idee e a volte mostra un atteggiamento ostile. La riconoscenza? A tratti". Nel suo percorso assistenziale la dottoressa ha seguito "anche una coppia, il marito era in un reparto, la moglie in un altro, si erano visti per l’ultima volta in Pronto soccorso e poi sono morti a poca distanza uno dall’altra". Situazioni difficili che restano impresse nella memoria.
All’ingresso del reparto il posto d’onore spetta all’albero di Natale e c’è anche il momento per la foto ricordo. Poi si torna al lavoro, come Pasquale Graziano, 28 anni, infermiere originario di Sant’Arsenio: "Al primo impatto ho avuto qualche preoccupazione, ma poi vedendo l’organizzazione del reparto mi sono sentito a mio agio. Domattina arriverò alle 7". Anche il collega Alberto Vocca, 27 anni, proviene dal Sud, da Battipaglia. "Mi auguro che domani ci sia calma e tranquillità. Certe volte i malati sono spaventati, allora cerco di rincuorarli, tenendo le loro mani. E anche un abbraccio, per quanto sconsigliato in questo momento, con le giuste precauzioni e i dispositivi di protezione, si può fare. Sì, porterei un No vax in reparto, così potrebbe farsi un’idea e magari cambiare la propria". Stefania Zaccaroni, 56 anni, responsabile della Medicina infettiva e respiratoria del sesto piano, ammette che "il rapporto con i malati Covid è cambiato: lo scorso anno i ricoverati si affidavano alle nostre cure, adesso, invece, spesso si avverte la perdita di fiducia. Alcuni rifiutano la ventilazione non invasiva, noi cerchiamo di convincerli e qualche volta ci riusciamo, ma è una prova ulteriore per noi".
La specialista elenca i tentativi messi in atto. "Proviamo con i colloqui, con le videochiamate ai familiari, ma capita che anche questi ultimi siano diffidenti e ci chiedano che farmaci proponiamo. Chi sono i ricoverati? Ora i non vaccinati sono sette, un terzo del totale, con un’età che va dai 50 ai 70 anni. La loro caratteristica è di non avere altre patologie, ma quadri impegnativi di insufficienza respiratoria con il rischio di peggiorare in poche ore. In questo gruppo i No vax convinti sono pochi, piuttosto si tratta di pazienti che non si sono vaccinati per paura o perché non avevano le idee chiare". Sulla stessa lunghezza d’onda anche Clara Cesari, responsabile delle Malattie infettive del decimo piano: "Quest’anno i malati non vaccinati a volte sono molto critici verso le terapie e alcuni le rifiutano". Il riferimento ai vaccini è chiaro nelle parole di Nicola Cilloni, responsabile dell’area critica. "I nostri pazienti sono acuti e gravi – sottolinea –, ma soprattutto c’è la consapevolezza che buona parte della fatica poteva essere evitata: adesso abbiamo 25 ricoverati e l’80% non è vaccinato".