
Il regista: "Un riconoscimento che mi commuove, è arrivato al momento giusto. Ogni film che ho fatto racconta una parte di me"
Bologna, 15 marzo 2025 – Cinquantacinque film per 55 anni di cinema. Questo è Pupi Avati, attualmente nelle sale italiane (in questi giorni all’Odeon e verso fine mese per una serata con loro) con l’horror gotico ’L’orto americano’, un longevo e sorprendente maestro della settima arte che a 86 anni ama ancora questo mondo come fosse un ragazzo che deve scoprire tutto e che celebra ogni vittoria con gratitudine. E l’Associazione della Stampa Estera in Italia lo premia con il Globo d’oro alla carriera, il Premio che celebra le opere più significative del nostro Paese. Il riconoscimento sarà consegnato il 2 luglio in Campidoglio durante la cerimonia della 65ma edizione.
Maestro, dopo una lunga carriera ecco il premio Globo d’oro che la celebra. Come si sente? "Un premio che arriva dopo 55 film e una carriera autentica in cui credo di aver rendicontato ogni anno quello che era il mio rapporto col cinema e con la vita. Mi gratifica perché arriva oggi, senza fretta, ci vuole il tempo giusto perché i premi siano importanti".
Ogni film parla di lei in un preciso momento dell’esistenza? "Ogni film che ho fatto assomiglia moltissimo a quello che ero nel ‘73 nel ‘92 o nel 2001, per citare degli anni, non assomiglia più a quello che sono adesso. E ogni film parla anche della mia crescita professionale. C’è da dire che il cinema è uno strumento recalcitrante, difficile da domare".
In che senso? "Bergman diceva che gli sono occorsi sette film per riuscire a farne uno che assomigliasse a quello che voleva fare, e quando invece capita come a Orson Welles che la prima opera è un capolavoro è un disastro perché poi non riesci più a fare una cosa così. Io e mio fratello Antonio, invece, apparteniamo all’altra categoria, quella che è partita proprio dal basso, dal rifiuto totale del pubblico che a Bologna non ci voleva accettare in questo ruolo inedito di cineasti".
Quindi è stato necessario scappare a Roma. "Sì, per non diventare una macchietta. È stato il mio destino e mi ha aiutato a fare una quantità di cinema che non ha eguali. Oggi tra i registi italiani sono sicuramente il più prolifico, perché prima di me c’era Monicelli che aveva fatto 65 film, ma fra i viventi sono quello che ne ha fatti di più".
Il cinema è ancora la sua vita. "Certo, e questa cosa mi è costata tantissimo anche nei miei rapporti personali, perché è evidente che sono stato un genitore molto assente. E negli ultimi anni, questo senso di responsabilità e di colpa l’ho avvertito e lo sto recuperando, soprattutto con mia moglie, per cui ho una grandissima gratitudine. In questi sessant’anni mi è stata sempre vicina, ma nei primi tempi, per trovare un’identità cinematografica, non facevo altro che il cinema. Ancora oggi io e mio fratello viviamo questo mondo con trepidazione, stiamo svegli fino alle due di notte per vedere quanta gente è andata al cinema di San Ruffillo a vedere il nostro film, perché anche questo è un segnale, non bastano le belle recensioni".
Nella sua vita raccontata dai film, quale sarà la prossima avventura cinematografica? "Non sarà un film gotico e non sarà un film di genere. Probabilmente un film sul mondo della televisione, raccontata in modo drammatico non brillante, perché tale è la realtà della televisione. Ogni tanto ho cercato di raccontare il presente, da ’Impiegati’ a ’Regalo di Natale’ fino a ’Ultimo Minuto’, attraverso osservatori speciali e ora vorrei raccontare il mondo tv attraverso le star del piccolo schermo, dei conduttori televisivi che per dieci giorni diventano il centro del mondo, tutto il resto non conta, e poi magari succede qualcosa e precipitano nel dimenticatoio".