
Gli Editors saranno giovedì al PalaDozza per l’unica data italiana
Bologna, 27 novembre 2018 - Sono necessariamente immagini in movimento quelle lasciate dagli Editors lungo il loro cammino discografico, perché questa è la natura delle band in continua evoluzione. Così nel suono che il quintetto di Stafford porta giovedì alle 20 al PalaDozza (unica data italiana; biglietti ancora disponibili) sull’onda dei consensi che ha saputo rinnovare l’ultima fatica in studio 'Violence' è a malapena riconoscibile l’impronta post-punk che caratterizzava tredici anni fa il debut-album 'The back room'. Pure la formazione capitanata dal cantante Tom Smith è abbastanza diversa da quella di allora, di cui rimangono il bassista Russell Leetch e il batterista Ed Lay affiancati dai neoacquisti Justin Lockey, chitarra, ed Elliott Williams, sintetizzatori. Con Andy Burrows special guest.
A parlarne è il motore ritmico della formazione inglese Ed Lay. Qual è la "violenza" a cui fa riferimento il titolo di quest’ultimo album? «La canzone omonima ci è sembrata un’importante chiave di lettura del disco, l’esatto esempio di quello che è il nostro sguardo sul mondo. Viviamo, infatti, un momento di tale egoismo e abbandono da renderci tutti abbastanza pessimisti su alcuni aspetti del domani. Creare musica, però, consente a noi che la facciamo di avere uno stato mentale più positivo, agendo come valvola di sfogo per le tensioni del mondo reale».
Cos’è cambiato tra "Violence" e il precedente "In dream"? «‘In dream’ lo realizzammo completamente da soli, immersi nella natura, senza influenze esterne. Per questo appare più isolato e meno diretto di ‘Violence’, che invece è frutto di una collaborazione. Penso che in quest’ultimo lavoro ci sia maggior equilibrio tra il nostro amore per la musica elettronica e il rock chitarristico dei primi dischi».
Svolta 'poppy'? «Diciamo che ‘Violence’ è più diretto del precedente, in quanto concepito su canzoni che arrivano al dunque più rapidamente di altre. La collaborazione con un produttore come Leo Abrahams ci ha aiutati a trovare il giusto equilibrio tra i nostri mondi creativi e quel che funziona in radio».
Dall’addio di Chris Urbanowicz nel 2012 sembrate aver velocizzato il cammino... «Chris è stato estremamente importante per noi, ma al momento della sua uscita abbiamo provato a vivere quell’addio come uno stimolo, come un’opportunità per andare oltre quello che eravamo stati fino a quel momento. La sua impronta sui dischi e dal vivo è stata troppo profonda per non indurci a voltare pagina completamente. Senza Chris non saremmo mai diventati la band che siamo, quindi ci manca, ma, allo stesso tempo, la sua assenza rappresenta uno stimolo per non adattarci a mondi comodi».
Suonate molto nei festival. Cosa cambia tra quel tipo di concerti e questo di Bologna al chiuso? «La sfida dei festival è quella di provare a conquistarci nuovi fan, mettendo in scaletta le canzoni capaci di attirare l’attenzione anche di chi si trova lì ad ascoltarci quasi per caso, richiamato dal nome in cartellone di altri gruppi. I nostri spettacoli, invece, sono l’occasione per dimostrare ai fan che vale la pena continuare a seguirci, rinfocolando la loro passione per la musica degli Editors e ringraziarli ancora una volta dell’amore e del rispetto nutrito nei nostri confronti».
La Brexit rappresenterà un problema (anche) per la musica? «La Brexit è il più grande spreco di denaro, di tempo e di opportunità a cui ci sia mai capitato di assistere. Di questi tempi, infatti, le arti vengono spesso trascurate perché la gente pensa solo alla politica e all’economia. Da artisti, speriamo che l’addio all’Unione non abbia un impatto troppo grande sulle nostre opportunità di continuare a suonare in giro per l’Europa (che consideriamo la nostra casa). Ma siccome spesso in passato le difficoltà hanno avuto ricadute sulla creatività, auspico che questo caos si trasformi in uno stimolo artistico».