Bologna, 21 novembre 2017 - E' una storia scritta tra le corde del violino quella che Ara Malikian racconta domani al pubblico del Duse (alle 21). Il romanzo (avventuroso) di una vita condensato qualche mese fa tra i solchi di The incredible story of violin, suo primo album di composizioni originali dopo una quarantina d’incisioni sparse. «Suono uno strumento eterno» ammette lui, 49 anni. «Quindi lui non è il ‘mio’ violino, ma sono io il ‘suo’ violinista, perché quando non ci sarò più continuerà a suonare tra le mani di un altro».
Nell’affollato parcheggio dei sogni di Malikian, Mozart e Vivaldi convivono con Jimmy Page o Jim Morrison perché un libanese di origini armene con passaporto spagnolo non lo puoi rinchiudere solo tra gli stucchi e i velluti di una sala da concerto, come ricordano pure quei tatuaggi astratti sul braccio destro simili a tagli di lametta. Tratti grafici affilati come le cicatrici lasciate in fondo all’anima dai ricordi della più devastante guerra civile mediorientale del Novecento che Ara prova ad esorcizzare su e giù dal palco calcando la mano sull’ironia.
Per lei il violino è sempre stato un bene di famiglia.
«Mio padre Jarayear era violinista della stella della canzone Fairouz (la Mina libanese, soprannominata in patria Nostra Ambasciatrice Presso le Stelle, ndr) ma sognava per me una carriera da concertista classico; quando a 14-15 anni ho lasciato il mio paese per andarmene in Germania, grazie alla borsa di studio per il conservatorio di Hannover che era riuscito a procurarmi il direttore d’orchestra Hans Herber-Jöris, è stato il violino a mantenermi gli studi».
Come?
«Suonavo nei caffè, nei locali di infimo ordine dove con un compagno di studi rifacevamo Schönberg e Weber alla nostra maniera, ma il pubblico non apprezzava, rumoreggiava, chiedendoci a gran voce un grande successo in quel periodo: El baile de los pajaritos. Canzone che, credo, abbia fatto fortuna in Italia col titolo Il ballo del qua qua. Così, per conservare il posto e l’ultimo brandello di reputazione, ci inventammo un motivetto facile facile, anzi di una banalità sconcertante, che nel corso della serata eseguivamo anche sei-sette volte con l’accortezza di dargli le forme più strane e irriconoscibili in mondo da farlo sembrare nuovo ogni volta. Facevamo a pugni con la nostra coscienza, vero, ma era l’unico modo per dribblare le richieste del temutissimo ‘baile de los pajaritos’».
Cosa ricorda del suo primo strumento?
«Si sa che i grandi violini sono Stradivari, Guarneri del Gesù, Amati, Bergonzi nomi italiani che alle orecchie dei musicisti suonano come quelli di Maserati, Ferrari o Lamborghini. Quando studiavo alla Hochschule für Musik und Theater di Hannover avevo uno strumento neanche lontano parente di quelli. Una vera schifezza. Così davanti all’insistenza con cui i miei abbienti compagni di corso teutonici, tutti dotati di violini da migliaia di marchi, iniziarono a chiedermi chi fosse il liutaio del mio, tirai fuori il primo nome italiano che mi passava per la mente: Ravioli».
Ravioli?
«Non fu un colpo di genio perché quelli iniziarono subito a prendermi in giro ironizzando ‘…ravioli al pesto?’. E io, che ormai non sapevo più come tirarmi fuori da quel cul-de-sac in cui m’ero cacciato, di rimando: ‘no, Ravioli Al..fredo! Poi, visto che ormai non avevo più nulla da perdere, decisi di arricchire la scemenza raccontando che Alfredo Ravioli era un famosissimo liutaio italiano amante del giardinaggio il quale, dopo aver realizzato alcuni esemplari-capolavoro come il mio, scelse di ritirarsi in Transilvania a coltivare una rarissima varietà di rosa!».
Nel finale esegue ‘1915’, sua composizione in memoria del genocidio armeno.
«Senza un violino, forse, non sarei qui. Mio nonno Krikor, infatti, nel ’15 si salvò dal genocidio perché qualcuno, un giorno, gliene mise uno fra le mani dicendogli ‘tu fai finta di essere un orchestrale e fuggi con noi’. Si salvò. E quando penso che al mondo ci sono 35 milioni di rifugiati, mi viene spontaneo augurare a ciascuno di loro la fortuna di trovare un violino».