Nel 2018 si stimava una media di 68 capi d’abbigliamento annui pro capite, per un totale globale di 80 miliardi, ovvero 62 milioni di tonnellate di vestiti prodotti, indossati, e buttati ogni anno. Il fast fashion non è più un fenomeno solo d’oltreoceano, i centri commerciali nostrani pullulano di grandi catene.
Tutti marchi che in comune hanno una cosa: appartengono alla categoria di produttori di una moda veloce, velocissima, che non ha tempo di cercare materiali di qualità, di portare avanti un processo creativo da zero e di produrre artigianalmente un abito. Visto il prodotto finito, verrebbe da domandarsi perché i clienti non mancano. La risposta è molto semplice: "La maggior parte delle volte purtroppo compro fast fashion – dice Elisa, 24 anni –, non solo perché economicamente mi sembra più accessibile ma soprattutto per la comodità: di solito i negozi che mi piacciono si trovano tutti dentro lo stesso centro commerciale o comunque su una stessa via e quindi in poco tempo riesco a vedere opzioni diverse e scegliere ciò che mi piace di più, ma so quanto sia poco sostenibile, sto cercando alternative". E le alternative, a giudicare dai 10 ragazzi intervistati (tutti di età compresa tra i 15 e i 30 anni e residenti ad Ascoli), qui non ci sono. "Sono pochissime le realtà dove trovare capi di seconda mano alla moda, a poco prezzo e di qualità, ad Ascoli non conosco negozi che fanno questo tipo di attività, a parte il mercato, che però ha vincoli legati ai giorni e quindi diventa sicuramente meno comodo" conclude Elisa.
Ma a pensarla così non c’è solo lei: "Compro fast fashion ogni tanto perché gli abiti sono economici e carini", e ancora "lo faccio principalmente perché sono cose che mi piacciono e mi fanno risparmiare". Anche per queste motivazioni l’attenzione del pubblico è sempre più rivolta ai centri commerciali. Il 90% degli intervistati non fa shopping nei negozi del centro storico, principalmente perché ‘c’è più scelta e sono più economici’. Però, i danni di questo meccanismo non passano inosservati: il 60% degli intervistati risponde che l’aspetto più problematico di questo fenomeno è legato ai danni ambientali, per il 20% ai danni sociali (ad esempio lo sfruttamento dei lavoratori) e per il restante 20% a quelli sociali, tra i quali la concorrenza ‘sleale’ ad altre attività per via dei prezzi bassi. Tenendo in mente ciò, la gen Z sembra però essere consapevole di dover effettuare un cambio di rotta: e difatti l’81,8% di loro acquista vintage, e lo fa per lo più al mercato. "Ad Ascoli non ci sono negozi di questo tipo", "Compro solo se sono in altre città o online, perché qui non saprei dove" si legge tra i commenti. Ed effettivamente, la soluzione per il 33,3% sembra essere solo virtuale: "Per comprare vintage ultimamente sto usando un’applicazione online piuttosto famosa, Vinted, che ti permette di comprare e vendere qualsiasi tipo di oggetto, usato e non. Devo dire che non acquisto tutte le tipologie di capi, ma mi è capitato più di una volta di comprare borse, zaini e cappotti sulla piattaforma".
Ottavia Firmani