SILVIA SANTARELLI
Cronaca

"Mi sono sentita in guerra. Un senso di impotenza"

Un medico in prima linea a Senigallia: "7 marzo 2020-7 marzo 2025. Una notte impossibile da dimenticare. Dentro quelle mute eravamo tutti uguali".

L’ospedale di Senigallia

L’ospedale di Senigallia

Sono passati cinque anni da quando all’ospedale di Senigallia sono arrivati i primi contagiati dal Covid. Un medico del Pronto Soccorso ricorda quei terribili momenti: "7 Marzo 2020 – 7 Marzo 2025. Cinque anni esatti dall’arrivo del Covid nella mia vita. Turno di notte. Una notte impossibile da dimenticare. Sapevamo che prima o poi sarebbero arrivati, ma non eravamo preparati. Mute anti contagio ne avevamo, ma non avevamo dimestichezza alcuna. Un camice monouso blu. Una mascherina ffp2. Degli occhiali per proteggere gli occhi. Guanti. Un copricapo che sembrava più una bandana per il sole. Improvvisamente un’infinità di ambulanza sono giunte nel nostro pronto soccorso. Una dietro l’altra senza sosta per ore. Ambulanze incolonnate in attesa che recuperassimo barelle per le persone. Non ho mai visto in 10 anni così tante barelle nel nostro pronto soccorso. Persone ovunque. Persone che scendevano dall’ambulanza, ognuna con la sua busta di medicinali. Tutte proveniente dalla provincia di Pesaro – Urbino. Tutti con gli stessi sintomi. Tutti con altri famigliari ricoverati altrove. Tanti con famigliari già deceduti per la stessa malattia. La medicina accademica è fatta di segni e sintomi, di esami strumentali e di laboratorio, di terapie. La medicina quella vera è fatta di nomi, di persone, di volti, di storie. Ognuno si ammala a modo suo. La medicina accademica è fatta di carta. La medicina vera è fatta di vite. Non so cosa sia una guerra, ringraziando il cielo, ma sicuro mi sono sentita per giorni e giorni in guerra. Si muore in molti modi, ma morire senza fiato e lontano da tutti, è una cosa che non potrò dimenticare mai più. Avevo perso tutto in un attimo. Il lavoro a cui ero abituata. Avevo perso il volto. Il mio. Quello della mia grande famiglia del pronto soccorso. Sotto quelle maschere, quegli occhiali, quei copricapi, quelle tute, eravamo tutti uguali. Tutti con la stessa maledetta paura. Di contagiarsi. Di morire. Tutti con quel maledetto senso di impotenza, di inutilità, di inadeguatezza davanti a quella nuova malattia. Diversi problemi di salute nei mesi precedenti. Di ritorno dal lavoro, mi infilavo sotto la doccia. Perché quell’acqua portasse via il covid dalla mia pelle, la paura dal mio cuore, le lacrime dai miei occhi. Un’acqua miracolosa che portasse via il dolore, il terrore di morire soffocata. E ogni volta uscivo dalla doccia ed era ancora tutto lì. Per mesi, non appena chiudevo gli occhi, vedevo solo sacchi neri percorrere il corridoio del mio reparto".