Al funerale di Massimo Canalini il suo corpo non era "atorniato cum molti libri", come avvenne per le esequie del primo grande editore italiano, Aldo Manuzio, nella chiesa di San Paterniàn a Venezia, nel 1515. Il corpo dell’editore anconetano, deposto in una bara di legno chiaro, esposta ieri mattina nella chiesa di Santa Maria dei Servi, era "atorniato" da una semplice corona e un nastro con i nomi del figlio, Piervittorio, e della ex moglie, Alessia. Oltre a parenti, amici di famiglia e conoscenti, sono intervenuti, per rendere l’estremo saluto a Canalini, i compagni editori, professori universitari, esponenti della cultura dorica, consiglieri comunali e regionali, scrittrici e scrittori, allievi e allieve, lettori e lettrici.
Un centinaio di persone ha assistito al rito celebrato da don Piergiorgio Agostini, che, pur confessando di non conoscere bene il defunto, ha compreso, leggendo sui giornali e in rete le testimonianze di chi lo ha ricordato, che in lui c’erano "genialità e intuizione". "Anche se Massimo Canalini non c’è più", ha dichiarato il sacerdote, "conforti la sua riuscita, permessa dalla sua creatività. La sua vita è stata vissuta non solo con intensità ma anche con grandi sogni. Ricevere dei complimenti, com’è accaduto a lui, non è da tutti". All’immortalità sperata da chi scrive, per cui, come abbiamo ricordato su questo giornale, Canalini rimarrà nei libri che ha pubblicato, don Agostini ha aggiunto l’augurio di "altrettanta eternità", quella che, parole sue, "è destinata a chi crede in Dio". Canalini non mostrava una particolare devozione, ma uno dei suoi autori di riferimento era il filosofo cattolico René Girard, con cui condivideva l’idea che alla base di ogni cultura umana ci sia il sacrificio come via d’uscita dalla violenza tra rivali, causata dalla tendenza a imitare un modello. E proprio un saggio di Girard, "Shakespeare. Il teatro dell’invidia", era tra quei livre de chevet, insieme ai "Canti popolari russi" di Propp e a un’opera di Heidegger, che Canalini teneva sul suo comodino, o meglio "sulla sua poltroncina bluette di Philip Starck", stando alla testimonianza della sua allieva, l’editore Valentina Conti. Con il pianto in gola, Conti ha ricordato dal pulpito la genialità e la pazzia di Canalini; la sua assenza dalla redazione di Transeuropa perché, come dicevano a chi lo cercava, "lui lavora di notte"; la sua cultura filosofica e non proprio letteraria, che gli consentiva di dialogare così bene con chi fa letteratura; il suo amore per il cinema e il fumetto. Nessuno ha osato leggere un’orazione funebre per Canalini, come fece per Manuzio l’umanista Raffaele Regio, e non avrebbe neanche avuto senso, nella nostra epoca che ha torto il collo alla retorica. Noi abbiamo bisogno non di elogi ma di studi che mettano in evidenza la visione del mondo e della letteratura di Canalini, il suo modo di concepire la narrazione e l’editoria, l’influenza che ha avuto su Pequod, la casa editrice che ereditò e sviluppò l’apertura nazionale e la vocazione alla ricerca che fu di Transeuropa. Potremmo cominciare leggendo lo straordinario romanzo "Palmiro" di Luigi Di Ruscio, forse il più grande degli scrittori pubblicati da Canalini, insieme a Joyce Lussu. Lo studio delle carte ci dirà un giorno quale fu il ruolo giocato dall’editor anconetano nella formazione di questo capolavoro.