Reggio Emilia, 7 gennaio 2014 - LO CHIAMAVANO il matto del paese, per quella sua insolita fissazione per i somari. Ma a lui non importava. Quel sogno ce lo aveva chiaro in testa. Una favola contemporanea. E oggi, che tutto è diventato realtà, non riesce a smettere di sorridere.
Giuseppe Borghi, 68 anni, le mani ruvide di chi sa come si lavora la terra, ora spalanca le braccia verso il più grande allevamento d’Europa («e forse del mondo») di asini (guarda le foto). Circa 800 esemplari, almeno undici razze diverse, anche le più rare (l’elegante romagnolo, il Martina Franca, l’Amiatino, il piccolo e nero sardo, il San Domenico, l’asiatico, il pezzato irlandese, il bianco egiziano, l’andaluso, il ragusano). È il suo piccolo mondo antico, sorto all’ombra del Montebaducco, a mezz’ora dal centro di Reggio Emilia, incastonato tra le colline della contessa Matilde. Un’azienda agrituristica nata nel 1996, divenuta nel tempo fattoria didattica, meta di scolaresche, di famigliole in gita; ma anche ristorante tipico, con 5 camere per il pernottamento e un punto vendita di prodotti alimentari e cosmetici a base di latte d’asina. Il fiore all’occhiello del figlio Davide, 43 anni, che porta avanti la passione di famiglia. Animali allevati in libertà nel verde di Quattro Castella, alimentati con prodotti biologici: foraggi di erba medica, fiocchi d’orzo e d’avena.
«IL DESIDERIO di aprire questo agriturismo nasce dal sogno di una vita», racconta Giuseppe, commosso. «Mio padre faceva il mezzadro e io lo aiutavo. Ero ancora un bambino, andavo al casello a prendere l’acqua potabile a tre chilometri di distanza e tornavo a casa, sempre in groppa alla Gina; la nostra asina. Lei era diventata la mia compagna. Stavamo sempre assieme, la portavo anche al bar a guardare la tv. Mi prendevano un po’ in giro, ma il nostro era un rapporto speciale. Lì ho scoperto la loro docilità e l’umiltà, che rendono i ciuchini animali domestici unici». Poi arrivò l’epoca delle macchine agricole, delle automobili a portata di mano. «Mio padre si comprò un trattore». E niente più somaro. Ma il tarlo restò lì. A perforargli il cervello. «Imparai a fare il fabbro. Dopo 22 anni, avevo racimolato abbastanza per cominciare la mia avventura. Comprai tre asini e chiesi al Comune il permesso per aprire una stalla per l’allevamento. Non mi credevano, pensavano fossi pazzo. Ma si sono dovuti ricredere».
I tre capostipiti — «Dante, Giuditta e l’Eleonora» — sono ancora lì, anche se un po’ acciaccati. («Un somaro può vivere fino a 30-35 anni se allevato con cura. Li vendo agli appassionati: servono circa 400 euro per un maschio, dagli 800 ai mille per una femmina; ne piazzo circa 300 l’anno»). Poi c’è Pierino, lo stallone romagnolo; Nerone, l’imponente e inusuale esemplare dal pelo corvino. E Morello, battezzato così vent’anni fa in onore di Dario, calciatore granata della storica Reggiana da serie A (ma militò anche nell’Inter, nel Bologna e nel Genoa). «Quando ha saputo che c’era un asino col suo nome è voluto a venire a conoscerlo a tutti i costi», annuisce Giuseppe. Una risata. Poi via, che c’è da lavorare. Anche di festa. E anche la domenica.
Benedetta Salsi
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