Ravenna, 16 luglio 2010 - LA SIRENA SUONAVA due volte, prima dell’ingresso in fabbrica fissato per le 7.30. Se ne udivano quattro e il loro suono superava di gran lunga l’allora piazza d’Armi, arrivava alla cinta muraria. Due appartenevano all’Omsa: allora lo stabilimento era in via Emilia Ponente, subito oltre il passaggio a livello, e due all’attigua Cisa, che lì è ancora.

A frotte, su viale Oberdan e su via Volpaccino, si affrettavano gli operai e le operaie in bicicletta o in ciclomotore. Erano gli anni Cinquanta-Sessanta e non si andava al lavoro in auto. Sono decenni che le fabbriche hanno messo a tacere le sirene. Da quando le tute blu si sono conquistate i diritti già scolpiti nella Costituzione, grazie allo Statuto dei lavoratori. Ma quelle sirene erano suoni rassicuranti per la comunità cittadina. Per Faenza il doppio suono significava che ogni giorno all’Omsa e alla Cisa si perpetuava il lavoro per più di un migliaio di persone, benessere crescente per tante famiglie. Scandivano anche, le sirene, il tempo dell’apertura della giornata a tante altre famiglie, a chi, studentello, doveva alzarsi per andare a scuola. E nel tempo, seppur cancellato come onda sonora, è rimasto nella memoria come metafora, metafora di una città operosa e rassicurata da un buon tessuto produttivo, pur fra molti alti e bassi.

DAL 23 LUGLIO cesserà per sempre anche la metafora sopravvissuta nel tempo. Data storica e carica di un futuro potenziale di democrazia il 23 luglio: 67 anni fa veniva preparato quell’ordine del giorno Grandi che all’indomani avrebbe determinato le dimissioni del dittatore Benito Mussolini e il suo arresto all’uscita dal colloquio col Re. Negletto giorno invece quello dei tempi attuali per i 350 dipendenti dell’Omsa: la fabbrica chiude definitivamente i battenti. Trecentocinquanta dipendenti, la stragrande maggioranza ragazze, o mogli, o madri di famiglia, una volta cessata la cassa integrazione, non avranno più alcuna entrata mensile. Chiude dopo 69 anni ed è stata azienda leader di un marchio conosciuto in tutto il mondo. Costruita dalla famiglia Mangelli, iniziò la produzione nel 1941 e ad inaugurarla intervennero proprio Mussolini e un codazzo di gerarchi fascisti.


Helen Humphreys in ‘Cani selvaggi’, racconta la storia di una fabbrica che produceva mobili, chiusa dopo anni lunghissimi di attività e dei tanti cani abbandonati dai padroni che non potevano più permettersi di sfamarli, e i cani si costituiscono in branco. Forse a qualcuna delle trecento operaie dell’Omsa verrà veramente a mancare di che nutrire sé e i figli, e forse dovranno proprio abbandonare il gatto o il cane, gioie del figlioletto.
Forse non ci si è soffermati, tutti noi, abbastanza, a riflettere sul dato di una fabbrica che chiude. La parola forse non rende, l’oggetto sociale così rappresentato —_ la fabbrica che chiude —_ forse non colpisce, non attiva riflessioni per chi non vive sulla propria pelle il cancello d’ingresso che non si aprirà mai più, la sirena che non suonerà mai più, la busta paga che non arriverà mai più. La chiusura di una fabbrica è un evento assoluto, irreversibile, indicibile, per dirla con Hannah Arendt, anche a dispetto dell’incommensurabilità dei due estremi, eppure sta passando fra l’indifferenza, altrettanto indicibile, di una città. Ben diversa fu la partecipazione cittadina alle crisi dell’Omsa di 30 anni fa.

E’ LA PRIMA volta che accade a Faenza — meglio, in tutta la Provincia — che un’azienda di così grosse dimensioni chiuda; e senza che ci siano alternative pronte. Chiude? Diciamo meglio, chiude a Faenza per trasferire la produzione in Serbia al solo scopo di diminuire il costo della manodopera e poter produrre a prezzi ‘competitivi’, concorrenziali. Si assiste ovunque a una rincorsa mondiale verso il basso, emulando il peggio dello sfruttamento anche se a due passi da casa. I figli, o forse i nipoti delle donne licenziate dall’Omsa potranno mai vedere il riequilibrio opposto, la riscossa di questi lavoratori sfruttati verso quei livelli sociali, economici e di diritti che nel mondo occidentale erano stati conquistati trent’anni fa e ora qualcuno vorrebbe mettere in discussione?
La holding di Nerino Grassi, Golden Lady, che raggruppa anche il marchio Omsa, ha stabilimenti produttivi in Abruzzo, Lombardia, Serbia, appunto, e in Usa e le gambe delle donne nel mondo mai smetteranno di indossare calze: allora c’è ancora di che riflettere su quanto sia immensa la carestia di idee e di etica, oggi, se non si è potuto trovare altra soluzione che non la delocalizzazione al solo fine di rassicurare le casse del gruppo?
Una trentina di operaie che fra una settimana assisteranno al funerale dell’azienda in cui hanno lavorato chi dieci, chi venti e anche più anni è entrata in fabbrica, ormai mezza svuotata, con i figli. E molte avevano le lacrime a rigare il volto, ma lo hanno tenuto ben nascosto.

L’INIZIATIVA è stata di un intraprendente fotografo ravennate, Giampiero Corelli che sull’Omsa e le sue vicende che hanno segnato la vita occupazionale e politica faentina dagli anni Settanta a oggi, allestirà in autunno una mostra fotografica con la collaborazione di un altro bravo fotografo, Antonio Veca e poi, insieme, daranno alle stampe un libro fotografico in cui accanto alle foto dell’inaugurazione con Mussolini in prima fila, ci saranno quelle delle quotidiane manifestazioni sindacali per la prima e la seconda crisi. Negli anni Settanta la lotta fu durissima perché all’epoca Mangelli voleva chiudere e la città si mobilitò tutta accanto alle ‘sue’ operaie. Alla fine una soluzione venne trovata, o meglio quella che si riteneva una soluzione: l’azienda fu rilevata da Gotti Porcinari, ma l’intera operazione recava purtroppo stimmate truffaldine tanto che pochi anni fu costretto a gettare la spugna e l’azienda, dopo una seconda gravissima crisi, venne rilevata da Arnaldo Grassi, che poi passò il testimone al fratello Nerino.

PARTE dei capannoni sono ormai svuotati, in altri ci sono ancora i macchinari e il prodotto, calze bianche, è ancora lì, in attesa di un completamento che sembra sospeso nel tempo (sono al lavoro 80 persone in turni di 4 ore). Hanno un chè di spettrale, come manichini di esseri incompiuti. «Non pensavo mai di portare i miei figli a visitare la fabbrica in cui ho lavorato proprio quando la stanno svuotando» commenta una giovane cassintegrata, mentre in un angolo una ragazzina accarezza la mamma triste che ricorda la spensieratezza delle giornate scandite sì dal cartellino marcatempo, ma plasmate dalla dignità che il lavoro può dare. C’è tanta amarezza dipinta sui volti di queste donne, tanta arrabbiatura, anche con i sindacati, ma tanta fierezza per cercare di superare questo angoscioso momento della vita. Si muovono lente, e qualcuna non riesce a collocare il proprio posto di lavoro perchè il suo reparto già non c’è più. E si acuisce il senso di smarrimento, quasi di perdita dell’identità. Avrebbe avuto forse l’effetto di una catarsi della memoria, se avessero potuto vivere con partecipazione lo smantellamento dei macchinari, come è accaduto a Vincenzo Bonocore, il capotecnico all’Ilva acciaierie di Bagnoli nel romanzo-verità di Salvatore Rea, la ‘Dismissione’, che si sente realizzato nel dirigere lo smontaggio della macchina a colata continua venduta ai cinesi.


Una ragazza conduce una carozzina: «Speravo che mia figlia potesse lavorare qui, come è accaduto a tante mamme e nonne faentine». E invece anche lei ha ricevuto la lettera di licenziamento. «A decorrere da domani lei non lavorerà più qui». Ci mancava solo che qualcuno, come in ‘Cordiali saluti’ di Andrea Bajani aggiungesse: «Ci consenta di ringraziarla per la fedeltà, la dedizione e l’entusiamo dimostrato. Da parte nostra le promettiamo che la sua vita fuori dall’azienda sarà meravigliosa». E’ veramente indicibile la chiusura di una fabbrica. Ma in quanti se ne accorgono?