Modena, 15 febbraio 2012 - E’ considerato uno dei migliori batteristi dei nostri giorni, ma lui dichiara di continuare a studiare il suo strumento, per ore ogni giorno. Stiamo parlando di Roberto Gatto, che, da ‘affezionato quale è della rassegna Jazz al Baluardo, si prepara a calcare di nuovo le scene del locale di piazza Tien An Men. L’appuntamento con il suo nuovo progetto, ‘Remembering Shelly’ è per domani alle 21.30. Ad affiancarlo ci saranno Luca Mannutza (piano), Max Ionata (sax), Marco tamburini (tromba) e Giuseppe Bassi (contrabbasso).
Gatto, cosa offrirà quest’anno al pubblico del Baluardo?
«Un tributo a Shelly Manne, uno dei più interessanti batteristi della storia del jazz, anche se non molto noto».
Cos’aveva di speciale?
«Un modo di suonare discreto, ma efficacie e versatile. Da batterista, posso dire che è stato uno dei miei idoli».
Il jazz si sta diffondendo anche tra il grande pubblico. Sta perdendo forse l’aura di musica d’èlite che lo accompagnava?
«Contrariamente a quanto qualcuno ha affermato, il jazz è una musica d’èlite. Non è un caso infatti che questa musica si suoni nei club, che ospitano un pubblico ridotto. In America, la dimensione propria del jazz è quella dei club».
L’America è la ‘culla’ del jazz. Ma qualche anno fa si diceva che gli italiani ‘lo fanno meglio’...
«Un abbaglio mostruoso, nel quale forse sono caduto anch’io. Abbiamo raggiunto un livello molto alto, ma l’Italia non è un paese ‘fatto’ per questa musica. Non viviamo la frenesia di una città come New York, abbiamo altri usi e costumi. Abbiamo bravi musicisti che suonano il jazz, ma fare veramente jazz vuol dire ‘vivere’ questa musica a 360 gradi, nel suo ambiente, studiandolo e ricercando continuamente».
E lei studia?
«Continuamente. Confesso però che tempo fa non lo facevo: ho sempre pensato che suonando spesso avrei potuto evitare di studiare. Sbagliavo».
Come ha cambiato idea?
«Dopo un viaggio a New York ho avuto una sorta di visione. In quei giorni ho vissuto veramente la città e il jazz: concerti, jam session, prove a casa dei musicisti. Lì devi continuamente misurarti con quello che la ‘Grande mela’ sforna ogni giorno e con tanti musicisti, spesso più bravi di te. Mi sono detto ‘forse è meglio tornare a studiare’».
Tra le sue tante collaborazioni, quale l’ha segnata di più?
«Quella con Chet Baker. Ogni sera suonare con lui era una palestra. Da lui ho imparato l’importanza di ascoltare gli altri musicisti. Chet era il jazz in persona».
Ci consiglia un disco?
«‘Treasure Island’ di Keith Jarret. Una bomba di energia».