Alessandra Codeluppi e Luca Soliani
Cronaca

"Siamo profughi: c'è posto in parrocchia?". "No"

Reportage. Viaggio nelle chiese dopo l’appello di Papa Francesco: rimbalzati da un centro all’altro

I nostri cronisti Alessandra Codeluppi e Luca Soliani nelle vesti di due migranti provenienti dalla Siria: hanno bussato alle porte di cinque parroci della nostra città

Modena, 15 settembre 2015 - Siamo i Giuseppe e Maria del giorno d’oggi. Ci presentiamo come marito e moglie. Una famiglia. Poveri, in difficoltà. E soprattutto in fuga dalla guerra in Siria. In cerca di un piatto caldo e di una coperta sotto cui dormire. Di una speranza per il futuro. L’estate sta sfumando: l’abbraccio del cielo, di notte, comincia a essere troppo freddo, anche solo per prendere sonno e dimenticare per qualche ora le nostre miserie. Fingiamo un inglese stentato: «Abbiamo un figlio piccolo».

Poi, come la coppia sacra di duemila anni fa, ci mettiamo in cammino. Affidiamo la nostra speranza di trovare un letto e un po’ di cibo a un foglietto. Stampatello, caratteri un po’ confusi: «Profughi da Siria, aiuto accoglienza». Quel pezzo di carta parla di noi: condensa la nostra storia e i nostri bisogni. Il nostro dramma. Il dramma di migliaia di persone che stanno scappando e cercano in Europa un futuro diverso. Facciamo intendere che lo ha scritto un italiano che ha avuto compassione di noi. Suoniamo ai campanelli di alcune parrocchie in città. Scappiamo da un conflitto: abbiamo fame e sete, paura per noi e soprattutto per il futuro di nostro figlio.

Fingiamo di essere islamici. Un velo avvolto a mo’ di chador sulla testa, pantaloni da tuta raccattati chissà come. Sudati e impolverati. Abbiamo alle spalle una storia di paura. Chilometri e chilometri di strada e di traversie. «Bussate e vi sarà aperto. Chiedete e vi sarà dato», dicono le Sacre Scritture. Ma, soprattutto, Papa Francesco ha appena lanciato un appello che sfida egoismi, nazionalismi e coscienze: «Ogni parrocchia accolga una famiglia di profughi. La Diocesi di Roma darà l’esempio». Noi lo siamo, profughi. Ci accoglieranno, ci aiuteranno, in qualche modo, i sacerdoti della nostra città?

Cominciamo alla chiesa di Sant’Agnese, in via Tacchini. Incrociamo il sacerdote, giovane e straniero, mentre esce di casa. Cartello alla mano, gli chiediamo aiuto. Lui ci risponde in inglese. «Qui non possiamo. Non riusciamo. Andate a Porta aperta. Avete capito? Porta aperta». Già: il centro di accoglienza allestito a San Cataldo e gestito dalla Caritas. Il sacerdote non appare indisposto. Sembra però disorientato e preso alla sprovvista. C’è un ampio solco tra le parole del Papa e le difficoltà che i religiosi dimostrano di avere nell’aprirci le porte. La gran parte di quelli a cui bussiamo non sembra pronta.

Andiamo alla Sacra Famiglia di Nazareth, in via Vaciglio centro. Il nome sembrerebbe un buon presagio. E poi, leggiamo sulla targa, è un centro di raccolta di alimenti e vestiario Caritas. Il sacerdote ci nomina proprio quest’ultima realtà e ci indirizza alla sede centrale. Ma non gli viene in mente la via. «Andate a piedi. Sono tre chilometri verso il centro». Davanti agli occhi ha il nostro cartello. Lui puntualizza: «Vi accoglieranno se sarà possibile». Ci chiede anche di mostrargli i documenti, che noi non esibiamo. Ma subito sottolinea: «Non sono per me, sono per il centro. E comunque qui non potete stare».

Il parroco di Santa Teresa di Gesù bambino, in via Milano, vorrebbe fare qualcosa per noi. Anche lui parla in inglese. Ci chiede da quanto tempo siamo in Italia. «Un mese», rispondiamo. Si ferma a guardarci. Specifichiamo subito che siamo stati in giro per l’Italia: «Florence, Bologna... Modena». Non vuole sapere altro. «Però qua non si può dormire – chiarisce –. Non abbiamo appartamenti a disposizione». Questa volta gli ricordiamo l’appello di Bergoglio. Lui replica: «Lo sappiamo, ma purtroppo non siamo attrezzati. Non sappiamo come fare». Poi accende il computer. Guarda il sito internet del Comune. Chiama Porta aperta davanti a noi: «Ho qui due profughi dalla Siria. Avete posto? Posso accompagnarli da voi in auto?». Dall’altra parte probabilmente arriva un «no» e il rinvio al centro stranieri. Il sacerdote consulta di nuovo internet. Si informa sull’indirizzo del centro stranieri e ce lo scrive sul retro del nostro biglietto: «Andate qui, in via Monte Kosica». Facciamo finta di non capire dov’è. Lui visualizza sullo schermo la mappa di Modena. Siamo esattamente dalla parte opposta della città. Con l’indice traccia il lungo percorso da fare a piedi. E poi ci saluta.

Nella parrocchia dei Santi Faustino e Giovita Martiri, situata al 231 della trafficata via Giardini, a mezzogiorno è impossibile parlare con il parroco. Suoniamo il citofono e risponde una voce di donna. Spieghiamo chi siamo, che fuggiamo dalla guerra e cerchiamo disperatamente un aiuto. La risposta è ferma: «Non capisco, scusate». Proviamo a insistere, chiediamo di aprirci la porta, ma dall’altra parte non ci ascolta più nessuno.

Ben altra accoglienza alla parrocchia di San Pancrazio Martire, sulla via Nazionale per Carpi. Nel cortile razzolano galli e galline, in un recinto di legno raglia l’asino Gaspare – il nome è scritto su un cartello appeso al recinto –, a fianco zampettano alcune caprette. Sotto un tendone, di fianco alla chiesa, alcuni stranieri parlano tra loro. Suoniamo alla porta, che è aperta. Il parroco si affaccia alla finestra e poi ci viene incontro. Ha la scura camicia scolorita e uno sguardo di pietà. «Mi dispiace tanto, ma qui siamo al completo», si giustifica. «Ospita profughi?», chiediamo. «No: sono poveri che vengono dall’Est Europa. Lo spazio a disposizione è ristretto e ci abitano già in sette». Insistiamo: «Abbiamo anche un bimbo piccolo...». «Non posso accogliere donne – aggiunge –. Qui sono tutti uomini...».

Chiediamo allora qualcosa da mangiare. Ma poche ore prima è passata «una siriana e ha portato via tutto quello che abbiamo raccolto. Ora andate a Porta Aperta, là vi troveranno un posto dove stare. E, se volete, tornate tra due giorni quando qui ci sarà di nuovo qualche alimento in dispensa. Scusate tanto. E buona fortuna per la vita vostra e del vostro piccolo».