Forlì, 11 ottobre 2011 - Chi rema contro la ripresa? Per Paolo Celli, amministratore delegato dell’omonima azienda, non ci sono dubbi: le banche e i sindacati. Titolare della storica impresa di macchine per lavorare il terreno, 50 dipendenti, 13 milioni di fatturato, una filiale commerciale in Corea, Celli non è il tipo che sgomita per guadagnare la ribalta. Ma ora lancia un vero e proprio ‘J’accuse’, «perché altri imprenditori alle prese con gli stessi problemi trovino la forza per uscire allo scoperto».

Punto primo: gli istituti bancari. L’azienda è fra le tante che hanno subito il colpo della crisi e nel 2009 ha perso il 25% del fatturato, «anche per errori nostri», ammette l’industriale. Niente ripercussioni drastiche, però: il personale è diminuito di una decina di unità, soprattutto in seguito al blocco del turnover. Nell’aprile 2010, a seguito dell’esposizione debitoria, è iniziato un percorso con cinque banche, mirante al consolidamento finanziario e al rilancio. «Dopo riunioni estenuanti, c’è stata chiesta una quantità enorme di documenti e siamo stati costretti a ricorrere a consulenti esterni — riassume Celli — . Nel febbraio 2011 abbiamo messo a punto un secondo piano quinquennale, ma a oggi non abbiamo ricevuto nessuna risposta dagli istituti, che si muovono in ordine sparso».
L’industria nel frattempo si è in parte risollevata, nel 2011 segnerà un recupero del 17% nel fatturato e del 67% nel portafoglio ordini. Ma l’impressione dell’imprenditore è di essere zavorrato: «Se vogliono sopravvivere sul mercato le aziende devono essere flessibili e veloci, ma l’intero sistema italiano non è pronto per affrontare la crisi. Il mio caso è emblematico». Nello specifico, le banche «sono preda di burocrazie, vincoli e norme complesse che rendono impossibile a noi imprenditori operare sui mercati». Celli, che è stato vice presidente provinciale di Confindustria, cita gli sforzi fatti in merito dall’associazione datoriale, che però «non raggiungono lo scopo, perchè Confindustria è un po’ timorosa e frenata dal ‘politicamente corretto’».
Tutte uguali, le banche? No, Celli sostiene che quelle locali hanno tempi di risposta più rapidi, mentre quelle nazionali rispondono a logiche involute: sono soprattutto queste ultime a tenere bloccato il suo piano di risanamento. E i ‘tavoli’ allestiti nel corso degli ultimi due anni, tesi a facilitare il rapporto credito-impresa? «Molte chiacchiere, nessun risultato concreto».

La seconda frecciata è indirizzata al sindacato, in particolare la Cgil, «la sola presente in azienda». «Ho accettato di informare i sindacalisti sulla reale situazione aziendale perché ci tengo a rapporti corretti, purtroppo mi è stato riferito che in assemblea ai lavoratori sono state dette cose inesatte, col risultato che i dipendenti sono rimasti terrorizzati mentre la mia iniziativa aveva l’obiettivo opposto». A settembre, i dipendenti si sono rifiutati di fare lo straordinario, dopo aver ricevuto in ritardo gli stipendi. «Così non siamo riusciti a consegnare le macchine in tempo e ora rischiamo di perdere le commesse», conclude Celli, che sbotta: «Non sono più disponibile a incontri coi rappresentanti dei lavoratori, se questi sono i risultati. Manca il rispetto. In più dal sindacato è in atto una campagna denigratoria, che ha avuto come conseguenza un atteggiamento di sfiducia sulle prospettive dell’azienda e di demotivazione sul posto di lavoro. A questo punto non escludo ipotesi di delocalizzazione. Il mercato italiano è fermo e vendiamo all’estero più del 60%: siamo un’azienda che assembla pezzi, non sarebbe un problema il trasferimento. Ma sia chiaro a tutti che noi il piano di ristrutturazione lo metteremo in pratica, a qualunque costo».