CHE BEFFA del destino per la pesca: considerata in Cina, suo paese d’origine, un simbolo d’immortalità, giace sempre più spesso in terra, ai piedi degli alberi. Svilita, deprezzata. I coltivatori sono stanchi di faticare per produrre sottocosto e ora alzano le voce: nei prossimi giorni li vedremo protestare ancora in piazze e strade di Romagna. A valle della filiera il consumatore vede che i frutti costano 2 o 3 euro al chilo e stenta a capire come possano essere pagati a meno di un decimo agli agricoltori.
Per la nostra economia è una botta mica da ridere e non riguarda solo i contadini. Si parla di un indotto di una quarantina di milioni, ci sono aziende, lavoratori, industrie di trasformazione. C’è una storia, una tradizione, un patrimonio di conoscenze e pratiche agronomiche.
Se le pesche nordafricane e spagnole inondano (non ancora mature) i nostri supermercati a maggio, mentre quelle romagnole, vergate di marchio Igp, a luglio le lasciano marcire sul terreno perché non vale neppure le pena raccoglierle, sorge un dubbio: non ci sarà qualcosa che non funziona nei tanto decantati mercati? Sarà forse il caso di metterci le mani?
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