Bologna, 24 gennaio 2012 - Un Paese di poeti, santi e navigatori ha assoluto bisogno di un editore. Perché gli italiani della santità se ne occupano molto e la praticano poco, e piuttosto che solcare il mare ci vanno in vacanza. Però scrivono, scrivono, scrivono. E hanno bisogno di qualcuno che li pubblichi. Come Roberto Mugavero, patron della Minerva Edizioni, sede appoggiata nella campagna in quel di Argelato, che di mestiere rende veri i sogni degli altri.
«Tutti quelli che arrivano qui con un romanzo sono convinti di aver scritto un best seller che venderà milioni di copie. Sempre che l’editore, cioè io, non gli rovini il mercato».
Il fatto è che vendere un romanzo, in un paese che scrive moltissimo ma legge in quantità inversamente proporzionale, è l’impresa più difficile di tutte. Per fare un editore ci vuole ben altro. Ci vuole la capacità di immaginare un mercato per un libro ancora da realizzare. Ci vuole l’abilità di catturare i futuri clienti di un volume che, in partenza, è solo un titolo in più fra tanti. Bisogna saper fare i conti con i costi, con le spese e con le aspettative degli altri. Impresa per niente facile.
Mugavero, come le è venuto in mente di fare l’editore?
«Prima ho lavorato nel ramo commerciale una decina d’anni per la Luigi Parma, la Poligrafici e l’Amilcare Pizzi di Milano, allora leader tra gli stampatori di libri d’arte».
Da lì a mettersi in proprio ancora ne manca.
«A fine anni Ottanta lessi un’intervista sul Carlino ad Andrea Emiliani. Lamentava il fatto che un suo amico avesse dovuto chiudere una casa editrice, specializzata in arte, e auspicava che spuntasse un giovane adatto a raccoglierne l’eredità. Mi presentai io».
E aprì la Minerva.
«Sì, ma continuai a lavorare a Milano per la Amilcare Pizzi. finché un giorno, mentre andavo lì in auto, con la minaccia di un alluvione in arrivo, dissi a me stesso: se il Po esce dagli argini a Piacenza, dove c’era il ponte che dovevo attraversare, a Milano non ci vado più».
Mi faccia indovinare. Il Po straripò.
«Quasi. Comunque non si passava. Tornai indietro e mi licenziai».
Eccola editore solitario. Domandone: come fa a vedere in anticipo un possibile mercato per il libro in cantiere?
«Il mio lavoro si basa su un principio semplice: applicare la qualità necessaria per fare libri d’arte a nicchie diverse e trascurate. Per esempio: i libri religiosi e quelli fotografici. Senza contare i libri per le banche, che quasi sempre hanno a che fare con i patrimoni artistici».
Ha trovato settori redditizi.
«Ho insistito su quelli lacunosi, dove c’erano poche cose, fatte male. Le ho migliorate, guadagnandomi una buona reputazione».
Poi si è allargato.
«Con un po’ di faccia tosta. Il mio motto è: meglio arrossire prima che sbiancare dopo. Ho iniziato a pubblicare libri storici e sono andati bene. Poi, contro il parere generale, ho aperto una collana di narrativa».
Mossa ardita assai.
«Bisogna adattarsi al mercato. Oggi non puoi puntare solo sul contenuto del libro ma creare anche un bell’oggetto. Nello sport, per esempio, siamo dei numeri uno. Perché curiamo i testi, le foto, l’impaginazione. Non facciamo prodotti seriali, ma prototipi molto curati. I libri sul centenario del Bologna sono stati un successo clamoroso».
Qual è stato il libro della svolta?
«Quello sulla storia delle radio private, nel 2006. Sono stato uno dei primi speaker, nel 1976, e ho sfruttato una vecchia passione per realizzare un volume unico. Che è andato benissimo».
Il momento più difficile?
«Adesso, perché nei momenti duri gli italiani rinunciano come prima cosa ai libri. Però i dati di Natale sono buoni».
Il segreto per resistere?
«Avere buone idee, cercare continuamente settori scoperti. I grandi editori non sono dei geni, mentre la piccola editoria batte continuamente le nuove strade. L’entusiasmo è il nostro vero valore aggiunto».
Cosa c’è nell’immediato futuro?
«Bei progetti. Come la prima vera biografia di Claretta Petacci nel centenario della nascita e la storia dell’uomo che è servito da ispirazione a Wilde per il personaggio di Dorian Gray».
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