Cantare fuori dal coro, spesso è difficile in questa città. Giorgio Celli, etologo-scrittore, mette il dito nella piaga denunciando con la sua consueta ironia — un ‘avviso vituario’ — la situazione intellettuale che sta vivendo. E noi ospitiamo volentieri questo suo sfogo.
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QUESTA lettera vuole avere il significato di un avviso vituario, e per capire che cosa intendo con questo orribile neologismo, da me coniato, dirò che è l’inverso dell’avviso mortuario, un avviso che compare sui giornali per annunciare la scomparsa di una certa persona. L’avviso vituario, invece, vuole comunicare che un defunto presunto gode di ottima salute. Ho creduto necessario che fosse stampato questo avviso, perché temo che i colleghi dell’università e gli amici scrittori, poeti e saggisti della mia città, mi credono passato a miglior vita, mentre io, malgrado la dialisi, sono perfettamente attivo, è comparso in questi giorni un mio libro, e altri sono già in cantiere, per cui...
DEVO premettere che questo avviso non è destinato alla cosiddetta gente comune, che sa benissimo che sono ancora in vita, perché qualcuno di loro mi ferma ogni giorno per strada, per chiedermi consigli sul proprio animale domestico, per vantarne le gesta, per avere lumi su quali studi avviare il proprio figlio che ama tanto gli animali oppure che scrive meravigliose poesie, spesso c’è chi mi stringe la mano, consigliandomi perfino di candidarmi come sindaco nelle prossime elezioni! Tuttavia se la gente della mia città mi ama e sa che sono vivo e vegeto, gli amici che si fregiano del blasone di intellettuali o i colleghi dell’università, mi hanno dato certo per morto, altrimenti non capisco perché sono colpito da tanto ostracismo.
PER ESEMPIO l’Università organizza un convegno dal titolo Animalia, e non mi invita a partecipare, ma chiama Danilo Mainardi, di cui sono amico e che considero il mio maestro. Nulla da ridire su questa scelta, ma pensavo che anche per i docenti avesse corso il proverbio mogli e buoi dei paesi tuoi. Sono certo che il rettore Ivano Dionigi non ha voluto mettere in dubbio la mia competenza di etologo, per cui deve credermi morto, e se mi ha visto in Aula Magna quando mi è stato conferito il titolo di emerito, deve aver creduto che per me quell’emerito fosse alla memoria, e che la mia presenza alla cerimonia costituisse un’apparizione fantasmatica.
ALTRO CASO: i miei vecchi amici del gruppo 63, di cui ho fatto parte, e non credo del tutto ingloriosamente, si radunano nella mia città presso la Coop dell’Ambasciatori, per esumare una rivista, Alfabeta, della quale anch’io sono stato collaboratore. L’occasione si prolunga in un convegno di varia letteratura, dal quale io sono stato rigorosamente escluso. Tra l’altro, con le varie Coop del mio paese ho collaborato in passato ben più di una volta, e mi stupisco dell’ostracismo nei miei riguardi, e mi stupisco ancor più per l’amico Romano Montroni, che io conosco fin dai tempi in cui fondò la Feltrinelli, che non abbia suggerito che io avessi qualche diritto a far parte dell’agape. Ma certo, anche lui, come tanti altri, e come gli organizzatori, mi danno per morto e se, qualche volta, mi hanno incontrato per strada, hanno pensato che si trattasse di un mio sosia. Un ’ipotesi surrettizia è che non mi si creda morto, ma colpito dalla lebbra e in tal caso prometto di mettermi al collo il campanellino di avvertimento come accadeva nel Medioevo. Ma forse, alla fin fine, la spiegazione è più semplice: non faccio parte di nessuna cellula, di nessuna parrocchia, di nessuna cupola, e di nessuna loggia. Devo dolermene, allora? Nemmeno per sogno!
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