Bologna, 14 dicembre 2011 - ESISTONO le aziende rosa? Intendendo per tali quelle che sono organizzate a misura di donna, dirette da una donna e dove i dipendenti con le mansioni più importanti sono donne? Se qualcuna ce n’è, la Corazza di Molinella, specializzata in plantari ortopedici, le rappresenta tutte al meglio. Diretta da Violetta Corazza, conta 24 dipendenti, il novanta per cento dei quali donne. Gli orari di produzione, concordati tra la direzione e le dipendenti, vanno dalle sette del mattino alle tre e mezza del pomeriggio. Perché così si guadagna tempo nell’arrivare sul posto di lavoro (la mattina alle sette non c’è traffico) e ne rimane ancora al pomeriggio per i figli e la vita familiare. In un momento economico che induce a pochi sorrisi, la Corazza offre un mestiere e uno stipendio preferibilmente all’altra metà del cielo.
Tanta propensione verso l’approccio femminile al lavoro trova origine nella storia della signora Corazza, che in questa stessa fabbrica cominciò a lavorare a dodici anni, sotto lo sguardo dei genitori.
«Mio padre Dino — racconta — aveva appena fondato l’azienda. Lui era un falegname e non sapeva niente di ortopedia. Però costruiva gli stampi che servivano a realizzare i plantari. E lavorava i materiali base: il cuoio e il sughero».
Servivano anche macchine per industrializzare il processo?
«Certo. E lui riusciva ad adattare quelle che esistevano già alle particolari esigenze delle nostre lavorazioni. Poi creò stampi in alluminio per plantari che andavano bene a tutti i negozi ortopedici, perché potevano modificarli a loro piacimento. Li usiamo ancora oggi».
E cosa ci faceva una bambina in quella fabbrica?
«Piccole cose, mansioni facili, alla fine della scuola. I miei genitori volevano che sapessi di cosa vivevamo, e finivo per condividere i problemi delle operaie. Ma continuai gli studi e diventai tecnico ortopedico».
Sempre più dentro gli affari della famiglia.
«Io ci mettevo le conoscenze tecniche. Papà le trasformava in macchinari e attrezzature che permettessero di fare produzione a costi contenuti».
Siamo già negli anni Ottanta.
«Gli anni della svolta. Perché il cuoio e il sughero, che si usano ancora oggi, sono materiali rigidi, difficili da sopportare sotto i piedi. E in quel periodo inventarono l’Eva, un prodotto termoformabile, che permetteva un comfort maggiore».
Le lavorazioni si semplificarono?
«Sì, ma noi le abbiamo mantenute entrambe. Una per il cuoio e il sughero, una per l’Eva. Solo gli stampi per i plantari restano uguali. Poi per creare i rilievi ortopedici sulle solette abbiamo cominciato a usare il lattice».
Gomma.
«Lattice. Ma, attenzione. Ci sono molti modi di prepararlo, perché all’ingrediente principale se ne aggiungono ventiquattro».
Un cocktail.
«Comprammo la formula a metà degli anni Ottanta. Il dosaggio è fondamentale. Un giorno mio padre lo sbagliò. Però ottenne un lattice più resistente e con maggiore elasticità. Che restituiva meglio al piede le spinte necessarie».
Un colpo di fortuna.
«La tenacia e l’intelligenza che approfittano del caso. Siamo riusciti a graduare le densità del lattice e adesso ne produciamo quattro tipi diversi».
Oggi cosa vuol dire, per lei, investire in ricerca?
«Adottare nuovi mezzi per migliorare i processi di produzione e i prodotti. Realizziamo mille plantari al giorno, a costi bassi, e ognuno è identificabile grazie a un codice a barre. Se un cliente ce lo chiede siamo in grado di risalire al lotto di materiale, alla qualità delle materie prime utilizzate, alle sue caratteristiche fondamentali».
Il plantare certificato.
«Poi ricerca vuol dire trovare altri mercati. Abbiamo un progetto con Unindustria per sbarcare in Cina. Noi offriamo formazione su come applicare il prodotto ai clienti. Loro, in cambio, si impegnano a garantire che per un certo numero di anni comprano i plantari da noi».
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