Bologna, 17 agosto 2015 - Saranno una cinquantina seduti sulle panche di legno in questo stanzone dalle finestre sempre aperte anche adesso che, a duemila metri, l’inverno tanzano non supera i dieci gradi. Guardo le mamme con i piccoli in spalla, avvolti in copertine dai colori sgargianti, i loro mariti, padri, fratelli, cuffie di lana calate sulla testa e giacconi di un paio di misure più larghe. Qualcuno addomestica il sonno, schiacciando un pisolino dopo due, tre ore di cammino dai villaggi vicini, altri parlottano a bassa voce. Sorprende la calma.
Lao mi ha riconosciuto, sorride mentre sussurra il mio nome agli amichetti. L’altro giorno abbiamo giocato insieme nel campo da calcio improvvisato dietro la Casa della carità. Sbraitava, correva, sudava come fanno tutti i bambini rapiti dal pallone. Eppure, a otto anni, Lao sa che la sua vita è segnata. La sua come quella degli altri pazienti sieropositivi che stanno aspettando il loro turno di visita qui nel Ctc (Care and therapy center) della missione di Usokami, un paese con due file di case di fango e 3mila anime a settanta chilometri da Iringa, sterrato per lo più. Dalle nostre parti l’Infezione da HIV è una malattia cronica. Uno la prende e poi, impostata la terapia adeguata, ci convive per decenni. In Tanzania è tutta un’altra storia. Un po’ perché i tipi di farmaci a disposizione sono pochi e datati, un po’ perché spesso si arriva alla diagnosi solo in fase avanzata, il virus continua a piantare le sue croci nei campisanti a ritmi vertiginosi. Secondo le stime ufficiali del governo locale, il 5,1% della popolazione è sieropositivo, 9,1% nella regione di Iringa. Oltre 3.666 pazienti sono seguiti dal Ctc, 120-150 persone ogni giorno si recano al centro per la visita periodica (mensile o quindicinale) durante la quale vengono assistiti, si sottopongono alle analisi del sangue (ogni semestre) e ricevono i farmaci per il mese successivo.
«Dietro i numeri si celano le storie dei malati, spesso veri e propri drammi familiari. Ieri abbiamo diagnosticato l’HIV a un bambino di tre anni accompagnato dai genitori. Quando gli abbiamo comunicato il risultato, il padre non smetteva di piangere...» racconta la volontaria sorella Angela delle Famiglie della visitazione, fra gli ultimi bolognesi presenti nella missione che, fino al 2012, è stata gestita dalla nostra arcidiocesi. Medico in prima linea, Angela non lo dice, ma, con sorella Elisabetta, è la colonna portante del Ctc. Entra ed esce dagli ambulatori come una trottola, con il camice bianco sulla veste marrone. Ha modi decisi e una buona dose di sangue freddo per duellare con la morte anche solo nella prospettiva di una resa onorevole. «Qualche giorno fa – si sistema il velo sulla fronte – abbiamo ricoverato nell’ospedale della missione un ventenne in Aids conclamata con un fortissimo mal di testa. Nelle sue condizioni non possiamo fare altro che alleviare le sofferenze. Due settimane prima è toccato a una ragazza, stesso quadro clinico. Si è spenta in una decina di giorni».
Solo ora mi accorgo che lo stanzone è saturo di odori alquanto intensi. Esco, mano nella mano con Lao. Lungo la strada bianca e polverosa non parliamo d’altro che della nostra prossima partita di calcio. Poco importa se lui e gli altri bambini non hanno ancora chiaro il gioco di squadra, partono palla al piede e chi si è visto si è visto. Alle volte è sufficiente ingannare la vita.