Ancona, 17 aprile 2013 - A LETTO è potuto andarci solo alle otto del mattino in coda ad un tour de force come poche altre volte gli era capitato nella sua pur pluridecennale professione di giornalista. Il fabrianese Stefano Salimbeni racconta lui stesso al Carlino al telefono dagli Stati Uniti, che non ha avuto un solo attimo per tirare il fiato sin da quando è arrivata la notizia dell’attentato alla maratona di Boston, la città dove vive ininterrottamente ormai da 16 anni.
Salimbeni, innanzitutto come ha saputo della tragedia?
«In modo quasi surreale. Avevo trascorso la mattinata assieme a mio figlio di sette anni seguendo le celebrazioni del ‘Patriot day’ a colpi di fuochi artificiali e festeggiamenti rumorosi, evidentemente un triste presagio di quanto sarebbe capitato pochissime ore dopo. Nel primo pomeriggio sono tornato nella mia abitazione all’immediata periferia per riposarmi sul divano. Quando ho accesso Sky Italia con sorpresa ho notato che anche nel mio Paese stavano trasmettendo la maratona di Boston, ma non era per l’evento sportivo in sé, ma purtroppo per l’attentato di cui fino a quel momento non sapevo nulla.
A quel punto ho preso l’auto e in una decina di minuti ho raggiunto la vicina zona del traguardo dove era avvenuto il fattaccio».
Poi cos’è successo?
«Innanzitutto ho chiamato i miei familiari a Fabriano dicendo loro che ero vivo e vegeto. Le telefonate successive sono stati con alcuni amici di Boston per rassicurarci a vicenda. Poi è stata la volta dei continui e convulsi contatti con i media con cui collaboro e la giornata è andata avanti a ritmo incessante con i servizi per ‘Panorama’ e ‘Famiglia cristiana’ e la diretta tv su Rai3 per la trasmissione ‘Agorà’».
Cosa ha visto e raccontato in quelle ore così frenetiche?
«Ho fatto fatica a scindere l’uomo dal giornalista e non solo perché ho assistito a scene davvero drammatiche. Da producer ho vissuto anche la tragedia delle Torri gemelle di New York dell’11 settembre, ma stavolta il fattore emozionale era diverso. Boston è come Fabriano, la mia città a tutti gli effetti. Vedere le facce di tanti amici e conoscenti stravolte dal terrore seminato dal vile attentato mi ha fatto davvero riflettere. Del resto ormai in questa splendida comunità sono perfettamente integrato e in ogni angolo della città ho una persona cara o un ricordo che mi lega con un senso di forte affetto ad una città comunque fortemente smaniosa di risollevarsi».
Come ha reagito la città ad una simile tragedia?
«In queste ore Boston è stravolta. Anche il colpo d’occhio è veramente diverso dal solito. Sembra di vivere in una sorta di città fantasma dove in moltissimi hanno paura di uscire per il timore che possa ripetersi qualche altro atto intimidatorio. Al tempo stesso diversi luoghi sono presidiati dai soldati e dalla divise proprio per aumentare la percezione di sicurezza e di controllo in un momento psicologicamente difficilissimo come questo in quanto di colpo è tornata la paura per la recrudescenza del terrorismo, sebbene di matrice forse non internazionale».
Un’immagine che le resterà di questa folle vicenda?
«Una foto dei media americani con una sdraio a stelle e strisce macchiata dal sangue di due persone esanimi. Mi è sùbito venuto in mente che anche io ne ho una simile e tante volte mi ci sono accomodato insieme a mio figlio. Quando sei padre la responsabilità è forte e certi cattivi pensieri fanno fatica ad essere allontanati di fronte a barbarie e premeditate vigliaccate come quella di domenica».
Alessandro Di Marco
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